Green Deal: il bivio della manifattura italiana tra ideali ambientali e sopravvivenza economica
News brevi
Ottobre 2025
«Il Green Deal rischia di essere uno strumento di deindustrializzazione della manifattura europea». Tommaso Foti, ministro italiano per gli Affari europei, non usa mezzi termini all'assemblea di Federchimica.
E non è una voce isolata: è il grido d’allarme di un intero sistema produttivo italiano stretto tra ideali ambientali e costi reali. Perché mentre Bruxelles disegna la rotta verso la neutralità climatica, le PMI italiane si trovano davanti una scelta brutale: investire cifre proibitive o arrendersi alla concorrenza extra-UE che opera senza vincoli.
Dal palco dell’evento “La chimica dei valori” a Milano, il ministro Foti rincara la dose: «È evidente che quando si parla di industrie in Europa bisogna partire anche da una considerazione che pure potrebbe sembrare banale, ma l’Europa crede ancora nell’industria e crede ancora nell’industria europea? Perché se noi non ci chiediamo prima se questo è un obiettivo o meno, difficilmente riusciamo a leggere correttamente alcune iniziative. Personalmente ritengo che quello del Green Deal non sia stato un errore. È stato un incidente voluto e studiato perfettamente con l’obiettivo ideologico di deindustrializzare l’Europa. Lo dico perché non è possibile che, usando solo il normale buon senso, qualcuno si sia accorto di che cosa si stava mettendo in piedi. Obiettivi che non sono possibili da realizzare, ma che vengono perseguiti con una sagacia che definire persecutoria è poco».
Tommaso Foti, ministro italiano per gli Affari europei
LA MODA SOTTO ATTACCO
Il settore – 60.000 imprese, 600.000 dipendenti, 92 miliardi di fatturato – è in prima linea. «Il sistema moda italiano è sotto attacco dalla concorrenza globale, le trasformazioni tecnologiche, la pressione dei costi energetici e le nuove normative europee», dice Luca Sburlati, presidente di Confindustria Moda. I numeri parlano chiaro: esportazioni -4% nel primo semestre 2025, importazioni cinesi +18%. E c’è un dato ancora più inquietante: secondo un rapporto Ambrosetti, il settore è in ritardo di otto anni sugli obiettivi 2030 e servirebbero 24,7 miliardi di investimenti. Il problema? Il 92% delle aziende italiane non può permetterselo. «Troppo fragili», spiega Carlo Cici di Ambrosetti.
Carlo Capasa, presidente della Camera Nazionale della Moda, lo ha detto al Parlamento Europeo: bisogna «addebitare i costi della transizione a chi riempie le discariche con fast fashion, non alla moda creativa». Il punto è proprio questo: le normative europee – CSRD, Digital Product Passport, Ecodesign Regulation – non distinguono tra chi produce qualità duratura e chi inonda il mercato di usa-e-getta. Roberto Bottoli, coordinatore del Tavolo Veneto della Moda, avverte sul rischio di «fanatismi green o eccessi di burocrazia» che gravano solo sui produttori europei.
Sempre Foti riflette su altri numeri: «In Europa ci preoccupiamo in modo quasi estremo di stabilizzare giornalmente le emissioni, quando l’Europa pesa il 6% in termini di emissioni. Mentre noi ci facciamo i complimenti per aver ridotto un po’ le nostre emissioni, gli altri le aumentano in modo sconsiderato e riescono a farci una concorrenza che ci spinge fuori mercato».
I NUMERI CHE PESANO
Parlare di transizione è facile, pagarla no. Il CSRD costa 274.000 euro iniziali più 148.000 euro all’anno. Per una PMI vicentina può significare la chiusura. Poi c’è l’energia: elettricità a 150 euro/MWh, la più cara d’Europa; gas con un rapporto 4:1 rispetto agli USA. Come si compete così? La produzione industriale italiana è calata dell’8,2% tra metà 2022 e fine 2024. Non fluttuazioni: una frana strutturale.
LA VOCE CONTRARIA
Eppure, c’è chi vede nel Green Deal un’opportunità. Anna Turrell, Chief Sustainability Officer di Decathlon, l’ha scritto nero su bianco: «Il Green Deal è il più grande vantaggio competitivo dell’Europa. E noi aziende abbiamo bisogno di certezza». La sua tesi ribalta la narrativa: non è il Green Deal a soffocare, ma l’incertezza normativa. «Un quadro legale chiaro permetterà di investire in pratiche sostenibili che garantiscono posti di lavoro e prosperità». Le imprese sono pronte a investire, ma servono regole stabili per pianificare.
Sette CEO di grandi gruppi industriali europei – da Siemens a Schneider Electric – hanno scritto di stare «trasformando la sfida in vantaggio competitivo attraverso costi energetici più bassi». E Ilham Kadri, CEO di Syensqo: «Il cambiamento climatico è un rischio ma anche un’enorme opportunità. Serve avere sia sostenibilità che redditività». Non uno contro l’altra, ma insieme.
IL BIVIO
La Commissione ha fatto un primo passo indietro col pacchetto Omnibus: CSRD solo per aziende oltre mille dipendenti, risparmio di 6 miliardi all’anno, 80% delle imprese esentate. Ma serve di più: un approccio che distingua qualità da produzione di massa, tuteli le PMI, impedisca concorrenza sleale. Un Green Deal che non diventi «strumento di deindustrializzazione» ma nemmeno pretesto per rinviare una transizione inevitabile.
Il vero bivio non è tra ambiente e competitività. È tra chi saprà trasformare la sostenibilità in vantaggio e chi resterà indietro. La domanda è: l’Europa darà alle sue imprese – soprattutto alle più piccole – gli strumenti per questa sfida? Il tempo delle risposte sta scadendo.
Il ministro Foti, però, è più categorico: «L’obiettivo qual è? È ridurre l’Europa, che ha già un suo problema intrinseco di denatalità, a un giardinetto per anziani, oppure vogliamo mantenere un’Europa produttiva che prosegua sulla linea di essere un faro della produzione in ambito mondiale? Non è possibile pensare di poter seguire la strada di un Green Deal se non si smonta questo Green Deal, se non si prende atto che non è possibile proseguire su una strada che assomiglia a un suicidio annunciato».
La federazione europea della concia si unisce ad altri 19 settori per chiedere di fermare l’attuazione dell’EUDR per garantire una rivalutazione della sua fattibilità
La prima indagine EY Luxury Client Index mostra come la qualità guidi le scelte nel mercato del lusso. Tra i driver emergenti, la sostenibilità (30%) supera il prezzo (22%); status ed esclusività restano fattori rilevanti.