Innovazione e circolarità
Ecotan, esempio concreto di innovazione sostenibile, è stato al centro della Tavola rotonda di Lineapelle dello scorso settembre.
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Novembre 2025
L’industria chimica europea affronta investimenti ridotti, importazioni in crescita e una quota di mercato in calo, mentre il Green Deal viene percepito come un freno competitivo. Marcello Taglietti di ICF parla del rischio di deindustrializzazione e invoca una transizione sostenibile che non penalizzi la manifattura europea.
Settimana scorsa abbiamo pubblicato una riflessione sulle dichiarazioni espresse dal ministro italiano per gli Affari europei, Tommaso Foti. Abbiamo interpellato anche chi si confronta tutti i giorni con il percorso sostenibile tracciato dall’Europa mentre cerca di fare impresa, in questo caso nel settore della chimica.
Ci è stato consigliato di partire illustrando alcuni dati. Allora eccoli di seguito.
Nel 2023, l’industria chimica nei Paesi dell’European Chemical Industry Council (EU27) ha riportato un investimento in capitale (capex) pari a €32,1 miliardi, collocandosi al 12% degli investimenti globali nel settore chimico.
Nello stesso periodo, l’investimento in R&I (ricerca e innovazione) da parte dell’industria chimica europea ha raggiunto circa €10,2 miliardi, ma la Cina continua a guidare gli investimenti globali in questo ambito.
La quota di mercato globale dell’Europa (EU27) nella chimica è scesa al ~13% nel 2023, rispetto al ~28% di vent’anni fa.
Nel 2024, le esportazioni chimiche dell’EU27 sono cresciute solo dell’1,0% rispetto al 2023, mentre le importazioni da paesi non-UE sono aumentate del 10,2% nei primi due mesi del 2025 rispetto allo stesso periodo del 2024.
Secondo i dati del settore chimico europeo, la dipendenza dell’EU27 dalle importazioni chimiche dalla Cina è «salita di oltre 4,7 volte in venti anni», passando da meno dell’1% nel 2004 a circa il 5,6% nel 2024.
Volumi produttivi: nel corso del 2023 l’output dell’industria chimica europea ha registrato cifre negative (declino stimato fino a -8 %) e per il 2024 è prevista una ripresa molto modesta (ad es. +1-2%).
È Marcello Taglietti, Chief Operating Officer di Industrie Chimiche Forestali S.p.A., a riflettere sulle parole del ministro Foti e sui dati appena presentati: «Il Green Deal è un lusso che la filiera del settore calzaturiero e pelletteria non può permettersi. Le parole del ministro toccano un nervo scoperto per chi, come noi, opera nella filiera del mondo della manifattura della calzatura e della pelletteria, fornendo adesivi e tessuti tecnici per puntali, contrafforti e rinforzi. È giunto il momento di affrontare una verità scomoda: l’Europa sembra aver smarrito la fiducia nella propria industria. E se questo dubbio può apparire teorico in altri settori, nel nostro comparto – fatto di piccole e medie imprese, di distretti produttivi storici, di maestranze e saperi tramandati – le conseguenze sono già drammaticamente concrete.»
Quindi il Green Deal sembra pensato a tavolino senza alcuna considerazione per la realtà?
«L’idea di un’Europa “verde” non è di per sé sbagliata: nessuno, soprattutto chi lavora con materiali naturali e artigianali, vuole un pianeta inquinato. Ma l’applicazione rigida e ideologica del Green Deal sta producendo l’effetto opposto rispetto a quello dichiarato.
Nel nome della sostenibilità, l’Unione Europea sta imponendo norme e vincoli che penalizzano in modo sproporzionato le imprese europee, mentre competitor asiatici, americani e sudamericani producono a costi e standard ambientali incomparabilmente inferiori. Lo vediamo quotidianamente nel nostro settore del comparto chimico dove regolamentazioni ci rendono la vita difficile (REACH, EUDR, Microplastiche…).
Il risultato è un trasferimento di produzione fuori dai confini europei — una deindustrializzazione programmata che, nella filiera del settore calzaturiero e pelletteria, si traduce in perdita di occupazione, chiusura di botteghe storiche e impoverimento del tessuto produttivo locale. Diverse multinazionali chimiche, messe sotto pressione dai crescenti costi energetici, dagli obblighi ambientali sempre più stringenti e da una burocrazia considerata troppo onerosa, stanno progressivamente disinvestendo in Europa per spostare le produzioni verso aree geografiche con normative più flessibili e con costi operativi inferiori. Questo trend porterà a una riduzione di capacità produttiva e quindi anche di disponibilità di materie prime di base che alimentano aziende come la nostra, vedendoci costretti in futuro a catene di approvvigionamento complicate ed onerose.»
È una sostenibilità che si trasforma in paradosso…
«La filiera che opera nel settore calzaturiero e pelletteria, e gli stessi produttori diretti hanno da tempo investito in sostenibilità reale: sviluppo di formulazioni di adesivi base acqua a basso impatto ambientale, materie prime certificate GRS sia nella produzione di adesivi che nei tessuti tecnici, lavorazioni a basso impatto, concerie certificate, uso di pellami provenienti da filiere tracciabili, riduzione degli sprechi e riuso dei materiali.
Tuttavia, le nuove regolamentazioni europee — spesso pensate in modo astratto e uniforme — non riconoscono la differenza tra chi produce responsabilmente in Europa e chi importa prodotti realizzati in contesti dove le norme ambientali e sociali sono inesistenti.
In pratica, mentre il produttore italiano viene soffocato da burocrazia, costi energetici elevati e obblighi di certificazione sempre più onerosi, il mercato continua a essere invaso da prodotti a basso costo e alto impatto ecologico.
È davvero questa la “transizione verde” che vogliamo?»
Insomma, va bene la sostenibilità a patto che permetta di competere ad armi pari con il resto del mondo?
«Come ha sottolineato Foti, l’Europa rappresenta appena il 6% delle emissioni globali. Pensare di salvare il pianeta con una politica che distrugge la nostra industria è un atto di ingenuità — o peggio, di cieca ideologia.
Il nostro settore non chiede scorciatoie, ma regole chiare e uguali per tutti: se un produttore europeo deve rispettare parametri ambientali rigorosi, lo stesso deve valere per chi esporta verso l’Europa. Altrimenti non si tratta di transizione ecologica, ma di suicidio industriale.»
Dal vostro punto di vista non rivedere il Green Deal condurrebbe all’estinzione della manifattura europea. Ce lo possiamo permettere?
«Difendere la manifattura europea significa difendere la sua identità. Dietro ogni paio di scarpe o borsa di pelle prodotta in Italia ci sono mani, storie, territori e, come nel caso della nostra azienda, Industrie Chimiche Forestali, una filiera produttiva a supporto altamente specializzata, sempre all’avanguardia ed in possesso di certificazioni di sistema (ISO 9001, 14001, 45001, EMAS) e di prodotto (GRS, FSC, ISCC Plus, OK-Biobased, OEKO-TEX Std 100, GOTS, BCI…).
Il saper fare europeo non può essere sostituito da produzioni anonime e seriali d’importazione. Smontare un Green Deal costruito senza considerare le conseguenze economiche e sociali non significa essere “contro l’ambiente”, ma al contrario voler conciliare sostenibilità e competitività, ecologia e lavoro, innovazione e tradizione.
Se l’Europa vuole restare un faro produttivo nel mondo, deve tornare a credere nella propria industria — nella nostra industria — e mettere in campo una politica che sostenga chi produce valore vero, e non chi importa a basso costo.
Credo che il messaggio di Tommaso Foti non rappresenti un attacco alla transizione verde, ma un appello al buon senso: prima di tutto serve una visione industriale. Perché senza industria non c’è futuro, e senza manifattura non c’è Europa.»
Ecotan, esempio concreto di innovazione sostenibile, è stato al centro della Tavola rotonda di Lineapelle dello scorso settembre.
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